Quando sarà stato riempito di rifiuti radioattivi, il Deposito verrà munito di tre barriere protettive – il cui obiettivo sarà garantire l’isolamento dei rifiuti per più di 300 anni, fino ad un livello di decadimento tale da non renderli più nocivi per la salute dell’uomo e per l’ambiente – e ricoperto da una collinetta artificiale e da un manto erboso. Il problema, poi, sarà trovare posto a circa 400 metri cubi di materiale particolarmente pericoloso, costituito da combustibile non riprocessabile o da combustibili mandati in Francia e Gran Bretagna per essere riprocessati, e che decadono in migliaia di anni.
Ora che la Mappa è stata pubblicata, può avere inizio la “consultazione pubblica” che coinvolgerà Regioni, Enti Locali e soggetti interessati alla realizzazione del Deposito, che potranno formulare osservazioni, chiedere chiarimenti e presentare proposte tecniche alla Sogin. Perché si proceda all’identificazione definitiva dell’area, tuttavia, sarà necessario raccogliere il consenso delle comunità interessate e delle istituzioni locali: elemento che si preannuncia tutt’altro che scontato. Una volta individuato il sito per la realizzazione del Deposito, i lavori di costruzione dovrebbero durare circa 4 anni.
Da Nord a Sud, nessuno vuole il Deposito
La gestione del dossier sul Deposito rappresenta l’ennesima potenziale complicazione per il Governo, già alle prese con la gestione della pandemia e della crisi economica e fortemente indebolito dalle tensioni interne delle ultime settimane. La realizzazione del Deposito, infatti, rappresenta un elemento dal fortissimo potenziale “nimby” – acronimo inglese che rappresenta forme di protesta attuate da gruppi o comunità contro opere e attività di interesse pubblico che potrebbero avere effetti negativi sulla loro area di residenza – ed è facile immaginare come, una volta selezionata l’area in cui si deciderà di avviare i lavori, le proteste e le contestazioni saranno all’ordine del giorno.
Le prime forme di forte ostilità al progetto si sono infatti già manifestate: in Puglia, il Presidente Michele Emiliano ha affermato, in aperta polemica con l’approccio governativo, che “non si possono imporre, ancora una volta, scelte che rimandano al passato più buio, quello dell’assenza della partecipazione, dell’umiliazione delle comunità, dell’oblio della storia e delle opportunità“. Clima analogo in Basilicata, da dove Domenico Bennardi, sindaco di Matera, ha già fatto sapere che la costruzione in Lucania del Deposito rappresenterebbe “uno sfregio” per il territorio: “Matera sito Unesco e deposito di scorie nucleari? Tutto questo terrebbe lontano chiunque“, ha attaccato il primo cittadino, con il quale si è mostrato in linea il Ministro della Salute – lucano – Roberto Speranza, secondo il quale la Regione non sarebbe adatta alla realizzazione del Deposito perché inserita in “in zona sismica 2“.
Anche il Governatore sardo Christian Solinas ha già alzato le barricate contro l’opera, annunciando di essere pronto a “mettere in campo ogni forma democratica di mobilitazione istituzionale e popolare per contrastare questa decisione e preservare la nostra terra da questo ennesimo oltraggio“. Proteste altrettanto vibranti, però, stanno attraversando tutto il Paese: dalla Tuscia alla Sicilia, fino al Piemonte.
Il caso di Trino
Sul fronte di chi, invece, si dice pronto ad ospitare il Deposito si registra una sola presenza: quella di Daniele Pane, sindaco leghista del comune di Trino, in Provincia di Vercelli. Lì si trova la centrale nucleare dismessa Enrico Fermi – uno dei luoghi in cui, attualmente, vengono conservati i rifiuti radioattivi. Il dato singolare, però, è che il Comune in questione non è stato inserito nella mappa di potenziali aree idonee recentemente resa nota, a causa della vicinanza con il fiume Po “Quasi l’80 per cento dei rifiuti radioattivi italiani sono stoccati tra Trino e Saluggia. Piuttosto che rimanere in questo stato di provvisorietà, preferirei ospitare il deposito definitivo con tutti gli standard di sicurezza“, ha detto il sindaco Pane.