La categoria più penalizzata dalle chiusure imposte dal Governo è senza dubbio quella dei ristoratori. Una coppia che aveva da poco aperto a Milano ha deciso di reagire e fare causa allo Stato.
Il 2020 si chiuderà non con migliaia di vite in meno e con circa 390mila aziende in meno. Una delle categorie più colpite dalle chiusure imposte dal Governo – forse la più colpita – è quella dei ristoratori. Alle perdite del primo Lockdown si sono aggiunte quelle della seconda ondata di divieti che non ha permesso loro di rifarsi neppure durante il periodo natalizio. Infatti i ristoranti resteranno chiusi – salvo che per il mero asporto – anche per il cenone di fine anno e per il pranzo del 1 gennaio dopo aver perso gli introiti del cenone del 24 e del pranzo del 25. Per l’Ufficio studi della Cgia di Mestre, fino ad ora, i ristori hanno coperto non più del 2% delle perdite subite dai ristoranti. Il direttore generale di Fipe-Confcommercio, Roberto Calugi, ha dichiarato: “Quest’anno abbiamo già perso 27 miliardi e le chiusure di Natale ce ne costeranno altri 7. Siamo al collasso”. L’intero settore rischia di saltare: 60 mila imprese con 300 mila addetti. A restare senza lavoro anche camerieri, cuochi, lavapiatti, addetti alle pulizie. E, indirettamente, ne pagano le conseguenze anche i fornitori.
Persone che corrono il rischio di diventare i “nuovi poveri” in fila alla Caritas per poter mangiare o avere coperte o abiti. Il settore ristorativo fatturava 95 miliardi l’anno. Cifra destinata – o condannata – a ridursi di almeno un terzo nel 2020 a causa delle restrizioni anti-contagio. E i ristori previsti dal Premier Giuseppe Conte non bastano a far fronte a tutte le spese: affitto, bollette, fornitori da pagare ma – di contro – merce non smaltita da buttare. Perché il cibo non è un abito che può essere riproposto tra qualche settimana.
Queste difficoltà le conoscono bene Marco Bedolo e Michela Fino che in dieci mesi hanno perso qualcosa come 90-100mila euro. I due avevano aperto un ristorante nel cuore di Milano a fine 2019. Dopo aver investito 300mila euro – tutti i loro risparmi più aiuti da parte della famiglia e 70mila euro circa ottenuti tramite mutuo bancario – la coppia aveva deciso di dedicarsi anima e cuore a questo mestiere e crescere i figli di 2 e 8 anni. Ma le cose non sono andate così. Il primo lockdown, a pochi mesi dall’apertura, aveva già messo a durissima prova i due con 8mila euro mensili di spese fisse – tra bollette e due dipendenti da pagare – e un affitto da 3mila euro al mese più Iva. “All’improvviso arriva il primo lockdown e la promessa dei risarcimenti. Scopriamo che a noi non spetta nulla, tranne un credito d’imposta sull’affitto per il mese di marzo. Abbiamo preso solo i 600 euro. Noi lavoriamo con materia fresca, facciamo panini, tartare di carne, pesce e siamo così costretti a buttare via tutto”– spiega Marco. Ma mentre il cibo è da buttare le bollette devono essere pagate così come l’affitto e i dipendenti. Come se non bastasse l’apertura recente preclude pure il prestito garantito dallo Stato di 30mila euro.
A maggio la tanto attesa riapertura che comporta altre spese per la sanificazione e la disinfestazione . E anche questa volta nessun indennizzo da parte dello Stato. Ed ecco le seconde chiusure: “Stavamo tentando di risalire, ma il secondo lockdown ci ha tagliato le gambe. Abbiamo finito tutti i fondi. Abbiamo già venduto alcune attrezzature e abbiamo messo in vendita l’attività”. Ma non è certo il momento giusto per vendere e, infatti, sul piatto arrivano offerte bassissime, anche di 15mila euro. Ma Marco e Michela non sono disposti ad arrendersi e si sono già rivolti ad un avvocato, il penalista Fabio Schembri: “Faremo causa allo Stato. Il Governo deve loro un indennizzo”.
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