I pescatori italiani, 107 giorni in attesa di tornare a casa “Ci hanno maltrattati, umiliati e picchiati”
In viaggio verso il porto di Mazara, i pescatori italiani sequestrati per 108 giorni in Libia raccontano la loro prigionia, fatta di umiliazioni, cambi di prigione e violenze.
Fermati in Libia per 107 giorni, maltrattati e picchiati. E’ questo il quadro che emerge dai primi contatti che i pescatori italiani – in viaggio sulle proprie imbarcazioni verso il porto di Mazara – hanno avuto con i propri familiari subito dopo la loro liberazione. Il racconto dei giorni di prigionia è terribile: Fabio Giacalone, a bordo del peschereccio Antartide, racconta alla moglie Marika Calandrino l’inizio di questi tre mesi di preoccupazione: “Ci hanno rinchiusi in un bunker sottoterra, ma Giacomo e Bernardo non c’erano. ‘Che gli è successo?’ ci siamo detti. All’improvviso, li abbiamo visti arrivare con il volto insanguinato“. A quel punto, capire cosa fosse accaduto ai compagni di sventura non era difficile da immaginare: “Li hanno picchiati perché le loro barche erano riuscite a scappare. Un affronto per i libici“, spiega Giacalone.
Già, perché quel giorno, il primo settembre, le motovedette libiche non fermarono soltanto i pescherecci poi sequestrati per oltre tre mesi – Medinea e Antartide: con loro altre due imbarcazioni, che però, nella concitazione del fermo, riuscirono a scappare. Un evento che avrebbe mandato su tutte le furie il personale libico che si sarebbe quindi vendicato su due dei fermati. D’altra parte, racconta la moglie Marika, le prime brutte sensazioni erano arrivate già quando, poco dopo il fermo, iniziò a circolare una fotografia del gruppo di marittimi: “Mio marito aveva il volto gonfio, un occhio quasi chiuso, e il collo rosso. Quando ci siamo sentiti dopo la liberazione gli ho chiesto subito: “Tutto bene?”. E mi ha fatto capire che era successo qualcosa di brutto“.
L’amarezza è tanta anche per Vito Gancitano, cognato di un altro dei pescatori, Bernardo Salvo, che sottolinea come l’uomo non abbia neanche la responsabilità di essere il comandante del Natalino – uno dei due pescherecci sfuggiti ai libici: “è il timoniere“, spiega. “Quando i libici li hanno fermati, si è ritrovato ad andare a bordo della motovedetta. Lo avranno scambiato per il comandante, e su di lui si sono vendicati“. Anche in questo caso, il racconto dei familiari fa emergere tutta la paura vissuta nei giorni del sequestro, quando le prime immagini di Bernardo avevano mostrato segni inequivocabili sul viso e sul corpo dell’uomo: “Fino ad oggi non abbiamo detto nulla, il momento era delicato, ma in quelle immagini si vedono chiaramente il viso gonfio e un braccio nero. Ora vogliamo sapere cos’è successo“, attacca Giancitano.
Il racconto di Fabio Giacalone manda su tutte le furie il padre Pietro, pescatore per una vita e indispettito dalle rassicurazioni arrivate nei 108 giorni di fermo da parte della Farnesina: “continuavano a dirci che i nostri ragazzi erano trattati bene“, dice stringendo i pugni, “Non era vero“. Ma il racconto non è finito, purtroppo: la detenzione in una stanza piccola e buia, le umiliazioni e le violenze psicologiche, le finte speranze date dai sequestratori: “Arrivavano nel cuore della notte e ci urlavano: ‘Adesso vi liberiamo’. E invece ci portavano in un’altra prigione. Quattro ne abbiamo cambiate” afferma Giacalone, che spiega come i fermati tunisini – colleghi dei marittimi italiani – abbiano dovuto sopportare anche più cambi di luoghi di prigionia. “Solo nell’ultimo mese ci hanno trasferiti in un palazzo, che era un posto più decente“, ammette.
Eppure sempre nella giornata di ieri era stato il capitano della Medinea Pietro Marrone a raccontare i 108 giorni di prigionia, descrivendoli – in collegamento con il cugino e armatore Marco – come durissimi ma negando che i marittimi fossero mai stati sottoposti a violenze di carattere fisico. “Abbiamo cambiato quattro carceri in condizioni sempre più difficili“, aveva detto Marrone, spigando poi come il gruppo sia stato sottoposto a “delle umiliazioni, pressioni piscologiche, ma mai violenze“. Nel suo racconto, Marrone descrive la paura vissuta durante il sequestro: “Ce la siamo fatta addosso per lo spavento, pensavamo di non farcela. Dentro quelle celle buie ci hanno trattato come se fossimo dei terroristi, umiliazioni su umiliazioni. Adesso, siamo tanto stanchi e abbiamo solo bisogno di tornare a casa“.