Dopo le polemiche esplose ieri per l’altissimo costo del servizio di assistenza domiciliare ai malati di Covid, il San Raffaele si difende.
Le polemiche erano esplose nella giornata di ieri, quando era stata diffusa la notizia che l’Ospedale San Raffaele di Milano mettesse a disposizione dei malati di Covid un pacchetto diagnostico domiciliare dal costo esorbitante: 450 euro. La struttura è prontamente intervenuta per cercare di fare chiarezza sulla situazione: il San Raffaele, infatti, fa sapere di aver provveduto all’implementazione del servizio di telemedicina “ben prima dell’emergenza” dovuta al Coronavirus, con l’obiettivo di mantenere la continuità delle cure e dell’assistenza anche per quei pazienti le cui condizioni non rendano più indispensabile il ricovero ospedaliero. Secondo la ricostruzione della struttura, sono oltre 20 mila i pazienti che, in pochi mesi, hanno approfittato di questo servizio, che, si legge nel comunicato, “mette a disposizione specialisti per 43 specialità cliniche“.
Con il dilagare dei contagi in occasione della seconda ondata, il San Raffaele ha quindi deciso di estendere il servizio di telemedicina anche ai malati di Covid, attraverso la possibilità di usufruire, oltre alle video visite, anche dell’assistenza diagnostica a domicilio. La procedura, infatti, prevede un consulto telefonico, o in collegamento video attraverso l’apposita piattaforma di videomedicina, e successivamente – in base alle valutazioni del personale medico – la richiesta di esecuzione di una serie di esami diagnostici domiciliari: RX torace, esami del sangue e saturazione. Una volta eseguiti i test, è previsto infine un teleconsulto nel quale vengono discussi gli esiti. Tutti servizi, sottolineano ancora dal San Raffaele, che la struttura “garantisce ai soggetti in isolamento obbligatorio un supporto completo”. Contattati dall’Huffington Post, i responsabili del servizio spiegano inoltre che il costo del servizio è inferiore a quello di “una normale visita a pagamento in ospedale“. A disposizione del paziente il paziente, però, ci sarebbero servizi molto più comodi e sicuri: “può richiedere una video visita con un medico specialista in Covid e in base alla valutazione, se lo ritiene, richiedere al proprio domicilio l’esecuzione degli esami diagnostici“. Analizzando meglio la composizione delle varie voci di spesa, si nota come il primo consulto, telefonico o in videocollegamento, abbia un costo di 90 euro, con la finalità di “inquadrare lo stato di salute del paziente positivo a Covid-19“. In seguito a questo primo passaggio, qualora il medico lo ritenesse necessario, si procederà all’effettuazione dei test diagnostici sopra citati, che il paziente “potrà prenotare il pacchetto di prestazioni di Diagnostica Domiciliare al prezzo di 450 euro“.
Nonostante i chiarimenti forniti dalla struttura, non mancano le critiche rispetto ad un servizio dal costo particolarmente elevato. “Il business sul Covid, no. Vi prego. Risparmiate almeno quello”, scrive su Facebook Attilio Galmozzi, medico dell’ospedale di Crema. “Mi auguro che questo ultimo indecoroso affronto finisca domani mattina“. Dello stesso avviso molti cittadini, che sottolineano però anche che l’esistenza di servizi a pagamento come quello del San Raffaele dimostri inequivocabilmente le lacune del servizio sanitario pubblico.
D’altra parte è innegabile come l’assistenza domiciliare, ritenuta da numerosi esperti come cruciale nella lotta al Covid – per limitare i rischi di contagio e per non aggravare eccessivamente il peso sulle strutture ospedaliere – si sia dimostrata in questi otto mesi di emergenza non all’altezza. Lo sottolinea, polemicamente, anche il consigliere regionale del Partito Democratico Matteo Piloni: “Sei positivo al Covid e in isolamento? Le Usca non funzionano come dovrebbero? Tranquilli, ci pensa il privato. Se Ats o il vostro medico non vi chiamano o non rispondono, ci pensa il San Raffaele“, si legge in un post Facebook. “Con un consulto video o telefonico a 90 euro e, se il medico lo riterrà, con 450 euro per un servizio di diagnostica a domicilio. Il pubblico arranca e il privato ingrassa“.
In effetti, i dati diffusi alla fine di ottobre dalla Regione Lombardia parlano di appena 46 Usca – le Unità speciali di continuità assistenziale – attivate, a fronte di un totale previsto di oltre 200. Queste unità, introdotte attraverso un decreto legge risalente a marzo ed assegnate ai giovani medici di base, dovevano rappresentare, soprattutto in vista della seconda ondata, lo strumento capace di intercettare tutti i malati meno gravi, così da favorire il tracciamento dei contagi e limitare gli accessi agli ospedali soltanto ai casi più a rischio. Ma l’attivazione delle unità è avvenuta in maniera insufficiente un po’ ovunque, sul territorio: nessuna delle province lombarde, infatti, presenta numeri neanche vicini a quelli messi in preventivo nei mesi scorsi. Dalla Regione, in proposito, fanno sapere che i bandi indetti per la costituzione delle Usca non avrebbero ottenuto gli obiettivi prefissati a causa dello scarso numero di personale medico a disposizione.
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