Ieri il vertice della maggioranza a palazzo Chigi. Sul tavolo spunta la riforma della legge elettorale e del Titolo V della Costituzione, quello che nel 2001 ha delegato la gestione della sanità a Regioni e Province autonome.
Ieri il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha ricevuto i leader di maggioranza a palazzo Chigi. Due ore e mezza di discussione – dalle 19 alle 21.30, giusto in tempo per rispettare il coprifuoco – per dirsi un po’ di verità, “da alleati e non da avversari”, come ha ripetuto più volte il segretario del PD Nicola Zingaretti. Ma anche per coprire le spalle al Ministro della Salute Roberto Speranza, preso di mira dagli attacchi dei presidenti di Regione. E dalla riunione di ieri potrebbe partire un pesante contrattacco. La novità del vertice starebbe nel desiderio dell’Esecutivo di fare una vera e propria riforma nel modo di gestire la crisi sanitaria. Che non sarebbe altro che una stretta dei poteri dei governatori, cominciando da quelli sulla Sanità. A parola tutti uniti. “basta polemiche e contrapposizioni», dice Conte alla fine dell’incontro. Matteo Renzi sembra soddisfatto della proposta dei grillini di una riforma del bicameralismo e del Titolo V, per la quale l’ex premier ha combattuto da sempre. Anche il PD è d’accordo con questa guerra di posizione con le regioni, quasi tutte in mano alla Destra. Ma i retroscena dell’incontro rivelano tutt’altro clima. Alla vigilia del vertice Renzi aveva un atteggiamento poco amichevole, e il caso scoppiato per un vertice dei 5stelle due ore prima dell’incontro con gli alleati hanno sollevato non pochi sospetti. E i dem sembrano non meno diffidenti, come se sapessero che l’incontro di ieri non è decisivo, sebbene sia stato utile.
Non stupisce che il Governo nel bel mezzo della crisi sanitaria voglia rivedere il dispositivo costituzionale che assegna alla Regioni il potere di gestione della sanità, appunto il Titolo V. Sulla opportunità o meno di decentrare una politica pubblica così centrale – come si è ben visto in questa crisi – se n’è discusso fin da marzo. Il decentramento della sanità risale alla riforma del 2001 di parte della Costituzione che, delegando a Regioni e Province autonome l’organizzazione e la gestione dei servizi sanitari, “ha contribuito a creare ventuno sistemi sanitari differenti, in contrasto con la nostra Costituzione”, sostiene Franco Di Mare, direttore di Rai Tre. Costituzione che prevede invece che tutti i cittadini hanno diritto al miglior trattamento sanitario possibile, senza distinzione alcuna.
Ora quel che vediamo è un tutti contro tutti e un non finire di scaricabarile. Neanche dieci giorni fa, il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana insisteva che “un eventuale lockdown è una competenza che spetta al governo”. Salvo poi aver cambiato idea quando la sua di Regione è diventata zona rossa per decisione dell’Esecutivo. Decisione che, incredibile a dirsi, ha sollevato ancora le proteste di Fontana, che parla di “decisione inaccettabile”, e contesta i dati “non aggiornati”. Sulla stessa scia il presidente facente funzioni della Calabria, Nino Spirlì, che parlava della “necessità di far decongestionare gli ingressi negli ospedali e di fermare l’aumento dei contagiati”. Mentre ora sostiene che la decisione del governo di classificare la Calabria tra le Regioni a più alto rischio “è ingiustificabile”, e afferma che il sistema sanitario calabrese non starebbe riscontrando difficoltà, riducendo ieri i dati sulle terapie intensive.
Perché con la Sanità in mano alle Regioni, un altro rischio che si scorge in questo periodo è che ciascun ente territoriale interpreti i dati – e quindi li trasmetta al Governo – secondo un suo proprio criterio. Per esempio per evitare di far entrare la Regione nella zona rossa. Quelli di Fontana e Spirlì sono solo due esempi di come le Regioni possono avere degli atteggiamenti ambigui nella gestione della crisi, rivendicando la propria autonomia al momento di allentare le misure restrittive, ma non volendosi assumere la responsabilità di chiudere, quando è il momento di farlo.
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