La ricerca condotta da un gruppo di ricercatori e statistici che coinvolge diverse Università ed Ospedali italiani dimostra che la situazione dei contagi necessita di interventi immediati: se le misure contenute nel nuovo Dpcm non dovessero dimostrarsi efficaci, infatti, l’Italia si troverebbe presto a fronteggiare una situazione senza precedenti.
Nonostante le grandi proteste innescate dal nuovo Dpcm varato dal Governo, che torna a colpire duramente alcune categorie di lavoratori, la speranza che tutti condividono, oggi, è che i vari interventi volti a contenere la diffusione dei contagi possano dimostrarsi efficaci e produrre un sensibile miglioramento della situazione.
Naturalmente è impossibile, in questo momento, avventurarsi in pronostici e previsioni. Se c’è chi, come Walter Ricciardi – consigliere del Ministro della Salute Speranza – si dice convinto che l’unica azione realmente efficace sarebbe l’introduzione di lockdown mirati -, la certezza è che le misure adottate – non avendo precedenti da cui trarre informazioni certe, relative agli effetti prodotti – sono di difficile interpretazione.
Il timore, però, è che già nelle prossime settimane – diciamo intorno a metà novembre – se le nuove restrizioni si dimostrassero scarsamente efficaci, la situazione possa precipitare. Secondo un modello elaborato da un gruppo di ricercatori dell’Università e del Policlinico di Pavia, insieme al Politecnico di Milano e alle Università di Udine e Trento, l’Italia potrebbe arrivare, senza misure di contenimento efficaci, alla situazione estrema di quasi un milione di contagi – 990 mila, secondo lo studio – con più di 60 mila ricoverati, di cui 5.700 in terapia intensiva, e un numero di decessi quotidiani intorno a quota 600. Dati non particolarmente diversi da quelli divulgati da Giorgio Prisi, Presidente dell’Accademia dei Lincei, e dal gruppo di 100 uomini e donne di scienza che nei giorni scorsi hanno rivolto un appello al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e al Premier Giuseppe Conte.
D’altra parte, già in primavera abbiamo fatto drammaticamente i conti con il trend esponenziale di questo virus: l’8 marzo, a 24 ore dall’inizio del lockdown nazionale, negli ospedali italiani erano ricoverati – causa Covid – 3.500 pazienti, di cui 650 in terapia intensiva. Nel giro di appena tre settimane, i numeri erano cresciuti in modo impressionante: 28.400 ospedalizzati e 4 mila persone costrette alla terapia intensiva. Il numero dei decessi era quasi raddoppiato: da 366 a più di 700.
La situazione attuale, purtroppo, è completamente paragonabile a quella di allora. Come sottolinea Guseppe De Nicolao, professore di analisi dei dati presso l’Università di Pavia, “l’andamento di tutte le curve è evidente ed esponenziale. Siamo come un Tir che va dritto contro un muro, per frenare abbiamo bisogno di cominciare per tempo altrimenti d schianteremo“. De Nicolao, che è tra i curatori della ricerca, è convinto che interventi di sicura efficacia siano necessari al più presto. Anche perché, prosegue, “il sistema ospedaliero è già in sofferenza se non interveniamo subito poi rivorrà molto più tempo per tornare indietro“.
Nessuna previsione, da parte del team di ricercatori, sull’efficacia delle misure volute dal Governo ed entrate in vigore da ieri: “non ci sono dati che ci permettano di capirne l’incidenza sull’indice Rt“, il vero elemento su cui gli interventi di contenimento intendono agire. La certezza, al contrario, è che se le misure non dovessero avere l’efficacia auspicata, il “tir” Italia andrebbe dritto a sbattere contro quel muro evocato da De Nicolao. Lo conferma anche Enrico Bucci, professore di Biologia alla Temple University di Philadelphia, che sottolinea l’importanza di avere a disposizione dati credibili. Cosa che, purtroppo, non sempre accade: “Se le informazioni sulla positività arrivano in ritardo per la saturazione del sistema sanitario e per di più con un ritardo diverso da regione a regione” – fenomeno che si replica, in maniera analoga, per i dati relativi a ricoveri, terapie intensive e decessi – “diventa difficile se non impossibile poter valutare la reale situazione epidemiologica“.
D’altra parte, in questa fase, le evidenze sono poche e non sempre destinate a prestarsi ad un’unica interpretazione. E’ una certezza, ad esempio, il fatto che l’impennata dei contagi si sia registrata a partire dai primi giorni di ottobre, a due settimane dalla riapertura delle scuole. Una coincidenza temporale che tuttavia non basta a garantire un nesso di causalità tra i due eventi: “Non va confuso il contagio degli studenti con il luogo in cui è avvenuto“, spiega il presidente della Fondazione Gimbe, Nino Cartabellotta. Gli fa eco Messia Melegaro, docente di demografia e statistica sociale e responsabile del Covid crisis lab della Bocconi, secondo cui “non c’è un evento specifico a cui possiamo attribuire la forte crescita dei contagi di ottobre“, dal momento che – oltre alla riapertura delle scuole – nello stesso periodo si sono verificati numerosi altri eventi che possono aver contribuito alla crescita dei contagi: “Il rientro dalle vacanze, il ritorno al lavoro e naturalmente anche a scuola con la ripresa delle attività pomeridiane hanno sollecitato i principali fattori di contagio: l’interazione sociale e la mobilità“. A questo, poi, si aggiunga il progressivo ritorno allo svolgimento in luoghi chiusi di numerose attività che, con l’estate, venivano invece svolte per lo più all’aperto. “Se vogliamo quindi rallentare la curva è su questo insieme di cose che bisogna intervenire“, conclude Melegaro.
La certezza è che si debba agire in fretta e in modo sicuramente efficace: l’allarme lanciato dagli statistici non lascia spazio a grandi interpretazioni.
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