Gli inquirenti che indagano sul caso di Cecilia Marogna stringono il cerchio attorno alla dama dell’ex Cardinale Angelo Becciu. Intanto, a Pesaro, l’Arcidiocesi investe oltre 600 mila in Liechtenstein e perde tutto.
Bonifici, pagamenti presso hotel e boutique di lusso, messaggi compromettenti. E’ questo l’insieme di elementi che aggrava la posizione dell’ex Cardinale Angelo Becciu e della sua dama Cecilia Marogna, arrestata lo scorso 13 ottobre su iniziativa della Procura di Milano e oggetto ora di una richiesta di estradizione in territorio vaticano inoltrata al Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Marogna, secondo quanto verificato dagli inquirenti, avrebbe ricevuto dalla segreteria di Stato 9 bonifici in 7 mesi. Soldi spesi in gran parte per sostentare l’alto tenore di vita tenuto dalla signora, e di cui forniscono ulteriore prova le conversazioni avvenute via Whatsapp tra Becciu, allora numero due della segreteria vaticana, e monsignor Alberto Perlasca, ex capo dell’ufficio amministrativo della Segreteria di Stato.
Il 20 dicembre 2018 Becciu, che aveva già lasciato l’incarico di Sostituto della Segreteria di Stato, chiedeva a Perlasca di effettuare una serie di bonifici in favore di Marogna. La donna aveva ufficialmente ricevuto l’incarico di mediare, per conto del Vaticano, al fine di ottenere la liberazione di una suora colombiana sequestrata in Mali, nel febbraio 2017. Becciu voleva tuttavia che l’elargizione avvenisse in una serie di tranche: “Ti ricordi questione suora colombiana?”, si legge nel primo messaggio di Becciu. “Pare che qualcosa si muova e il mediatore deve aver subito a disposizione i soldi. Li inviamo però a diverse tranche sul conto che più sotto ti indicherò. Primo bonifico: 75.000 euro intestato a “Logsic doo”. Causale: ‘voluntary contribution for a humanitarian mission’”.
Successivamente, Becciu ribadisce a Perlasca che la finalità del fondo era quella di favorire la liberazione della religiosa rapita, facendo anche riferimento ad una – millantata – autorizzazione ricevuta dal Papa in persona: “Ti ricordo che ne ho riparlato con il SP (Santo Padre, ndr) e vuole mantenere le disposizioni già date e in gran segreto”. Perlasca risponde con un “ok per la suora”, che fa capire come anche il capo dell’ufficio amministrativo fosse a conoscenza della vicenda.
La vicenda legata alla figura di Cecilia Marogna era partita addirittura dalla Slovenia. La polizia di Lubiana, infatti, aveva inviato una segnalazione su una serie di movimenti anomali fatti registrare dai conti intestati alla Logsci Doo, società con sede nella capitale slovena e di cui Marogna era amministratrice. A versare denaro nei due conti, come accertato dalle indagini della Gendarmeria Vaticana, era stata proprio la Segreteria di Stato, attraverso due bonifici emessi il 20 dicembre del 2018 e l’11 luglio dell’anno successivo. Il totale ammontava a 575 mila euro. A destare sospetti, oltre alla provenienza del denaro, erano state le successive movimentazioni. Logsci Doo, infatti, era ufficialmente attiva nel settore dell’assistenza sociale, mentre le spese risultavano assolutamente prive di attinenza che le finalità assistenziali e umanitarie previste, dal momento che riguardavano in massima parte pagamenti presso boutique di grandi firme della moda, hotel e ristoranti di lusso.
Per questo a Marogna vengono oggi contestati i reati di peculato e appropriazione indebita, legati al presunto incarico di mediatrice per la liberazione della suora missionaria sequestrata. Secondo gli inquirenti vaticani, infatti, la donna “agì da pubblico ufficiale”, elemento che dà adito all’accusa di peculato. “Nell’ordinamento vaticano non esiste la differenza – presente invece nell’ordinamento italiano – tra incaricato di pubblico servizio e pubblico ufficiale”, spiegano i magistrati della Santa Sede. Per questo, “qualsiasi persona titolare di un mandato amministrativo nello Stato, assume la qualifica di pubblico ufficiale”.
Il Crack dell’Aricidiocesi di Pesaro
Come se non bastasse, a rendere ancor più complicato il periodo per le istituzioni religiose è arrivata nei giorni scorsi un’altra cattiva notizia, sicuramente minore, ma comunque non piacevole. Il caso è quello di Pesaro, dove l’Arcidiocesi locale ha perso fino all’ultimo centesimo della ragguardevole cifra di 616 mila euro investita diversi anni fa in Liechtenstein. La somma arrivava dalla parrocchie ed era stata investita tra il 2003 ed il 2004 con una serie di versamenti in favore della società ValorLife Lebensversichterungs-Aktienegeselschaft di Vaduz, la capitale di piccolissimo Stato che gode di una tassazione iper – agevolata, pari appena all’1,5%. Anche per questo la Curia aveva deciso di sottoscrivere nel principato ben 9 polizze vita, della durata di 6 anni, i cui beneficiari sarebbero stati preti e fiduciari.
I versamenti cominciarono nel periodo in cui alla guida dell’Arcidiocesi c’era Angelo Bagnasco – tra il 2000 ed il 2003 – e sono proseguiti fino all’agosto del 2004, sotto la direzione di monsignor Piero Coccia. Alla scadenza dei 6 anni previsti dagli accordi, a Pesaro contavano di incassare l’ammontare delle somme versate più gli interessi. Ma quando, nel 2010, le polizze arrivarono al loro termine, ValorLife si rifiutò di corrispondere all’Arcidiocesi gli importi dovuti. Per ragioni che rimangono non chiare, la Curia decise di lasciar cadere nel nulla il caso, anche – forse – con lo scopo di non suscitare clamore attorno alla vicenda. Già un paio di anni prima, infatti, un’altra diocesi marchigiana – quella di Loreto – era finita al centro di un polverone in seguito ad un investimento sbagliato che portò ad un passivo di circa 11 milioni di euro. In quel frangente, tutta la liquidità della Delegazione Pontificia, inizialmente suddivisa tra diverse banche del territorio, era stata convogliata su un conto unico presso un altro istituto di credito e, poco dopo, era sparita. Sul caso si erano attivate indagini anche in Vaticano, che riuscirono poi a far riemergere parte della somma nel 2009, rintracciandola addirittura alle Isole Cayman.
Oggi, a distanza di anni e con la strada del ricorso penale ormai compromessa dal raggiungimento dei termini di prescrizione del reato, l’Arcidiocesi pesarese ha deciso di intentare una causa civile, anche in seguito ad una sentenza che ha recentemente condannato la ValorLife a corrispondere ad alcuni clienti il 15% del valore da essi versato. A complicare ulteriormente le cose, però, c’è il fatto che la società, evidentemente non nuova a comportamenti illeciti, è stata chiusa circa un anno fa dall’autorità di vigilanza del Liechtenstein: questo impedisce di notificare a ValorLife gli atti della causa intentata da monsignor Coccia davanti al Tribunale civile di Pesaro. “L’Arcidiocesi ha sottoscritto un contratto di puro investimento speculativo con capitale ad alto rischio e non, come era nelle intenzioni, delle polizze vita con capitale garantito” – ha dichiarato Tommaso Patrignani, avvocato della Curia. “La ValorLife ha violato tutti gli obblighi di legge addossando alla Diocesi l’intero rischio dell’investimento“. La prossima udienza è prevista per aprile 2021.