Piani di riforme, freno d’emergenza, tranche per l’erogazione dei fondi. Oltre l’accordo si intravede per l’Italia una strada tortuosa che porta all’effettiva possibilità di spesa del Recovery.
L’indomani dell’accordo raggiunto a Bruxelles tra i 27 membri sul Next Generation Eu, il Piano Recovery Fund collegato al Bilancio della Commissione Ue 2021-2027, e che prevede per l’Italia in tutto 208,8 miliardi di euro, è partita la corsa per la presentazione del Recovery Plan, ovvero il piano di spesa dei fondi da presentare a settembre. Le diverse condizionalità lasciate sul tavolo dal braccio di ferro con i Paesi frugali non lasciano però dormire sonni tranquilli Roma. In particolare il cosiddetto “freno d’emergenza” voluto con forza dal Primo Ministro olandese Mark Rutte che permette ad un singolo Stato di portare all’attenzione del Consiglio Europeo i parametri di spesa di un altro membro dell’Ue – anche se con un limite di tempo di valutazione della richiesta di due mesi – rappresenta una seria minaccia. Non è un potere di veto certo, ma non esclude che, nonostante l’accordo raggiunto, i falchi del Nord possano intromettersi di nuovo sui piani di rientro del debito. Nell’accordo raggiunto dai 27 rientra anche una sorveglianza sui pacchetti di riforme.
Il primo limite evidente, per sua stessa natura, del Recovery è il suo periodo limitato – essendo collegato al Bilancio 2021-2027 – mentre i fondi saranno distribuiti tra il 2021 e il 2023. Come scrive Il Fatto Quotidiano, l’Italia si è battuta affinchè venissero anticipata una parte sostanziale della liquidità, in modo da evitare lo spauracchio Mes da un parte e l’esposizione dei titoli di Stato sul mercati dall’autunno prossimo. Il 70% complessivo dei fondi verranno erogati tra il 2021 e il 2022, mentre il restante 30% entro la fine del 2023, significa che il nostro Paese in base agli accordi avrà circa 146 miliardi nei prossimi due anni e 63 miliardi nel 2023. I Paesi più colpiti dalla pandemia – Italia, Spagna e Portogallo su tutti – sono riusciti ad ogni modo a strappare un piccolo anticipo prefinanziato del 10% – che arriverà nei primi mesi del 2021 invece che a metà anno – il quale però dovrà essere stanziato per coprire le spese sostenute a partire dal mese di febbraio 2020, ovvero dall’inizio della pandemia. L’anticipo per l’Italia è di 20,9 miliardi di euro e potrà essere usato – almeno queste le intenzioni trapelate dal Ministero della Salute guidato da Roberto Speranza – per sopperire ai finanziamenti anticipati dalle Regioni per la costruzione dei Covid Hospital.
I prestiti andranno rimborsati già dall’inizio del 2027, ovvero dal nuovo bilancio pluriennale della Commissione e scadrà il 31 dicembre del 2058. I 750 miliardi del fondo, che la Commissione procurerà piazzato Eurobond sui mercati, avranno un rimborso comunitario – per la prima volta nella storia dell’Ue infatti è stato accettato il principio di comunitarizzazione del debito – compresi i sussidi. Ogni singolo Stato, in base ai patti Ue, da un suo contributo al bilancio della Commissione – anche se i Paesi frugali, sul questo fronte, hanno avuto forti sconti – ed è in tal modo che si rientrerà sul debito accumulato. Per l’Italia si parla di 40,6 miliardi da restituire sui circa 81,4 di fondo perduto. La bozza dell’accordo specifica che il 30% della ripartizione dei fondi nel 2023 potrà essere collegata al giudizio dei provvedimenti adottati dai singoli Stati nei due anni precedenti di utilizzo del Recovery.
Si tratta di un punto molto spinoso che apre crepe nel rapporto sulla sorveglianza Ue sulle riforme. Il punto 19 dell’accordo prevede che l’accettazione del Recovery Plan: “Deve essere ottenuto per quanto riguarda i criteri della coerenza con le raccomandazioni specifiche per Paese”. Come spiega HuffingtonPost, ci si riferisce alla singole raccomandazioni che la Commissione Ue invia ai Governi degli Stati membri, le quali non solo vincolanti ma tracciano la strada, per così dire, delle “buone intenzioni” degli Stati membri. Dal momento che, causa pandemia, le raccomandazione del 2020 sono state stralciate, verranno prese in considerazione quelle del 2019. Per l’Italia si tratta di: maggiore lotta all’evasione, alla corruzione e al lavoro sommerso, riforma della giustizia e nuove politiche attive per il lavoro. Importante è l’indicazione sulla riduzione della spesa pubblica e una manovra correttiva dello 0,6% del Pil. Non vi era traccia nel 2019 della riforma del sistema pensionistico, la quale è stata però messa sul banco dai Paesi frugali. In altre parole si chiedono interventi sul fisco e sul lavoro. Almeno per il biennio 2021-2022. Non è stata sventata la minaccia delle richieste dei piani di rientro: è probabile che una prima tempesta di riforme venga portata in Parlamento nel primo autunno.
Fonte: HuffingtonPost, Il Fatto Quotidiano