Si chiama jilbab ed è l’abito verde con cui Silvia Romano è scesa dall’aereo all’aeroporto militare di Ciampino dopo 18 mesi dal suo rapimento in Kenya. Una scelta, dovuta alla sua conversione, che non è piaciuta. Un tradimento, dicono, agli italiani che l’hanno salvata.
Silvia Romano è atterrata all’aeroporto di Ciampino indossando lo jilbab, un abito che non è passato inosservato alla stampa e ai giornalisti che hanno atteso il ritorno della giovane, rapita ormai 18 mesi fa durante una missione umanitaria. La veste, riferisce Il Fatto quotidiano, è comune in ambienti dell’Africa orientale dove è diffusa la fede islamica. Non è un abito religioso, ma è indossato da donne islamiche, da passeggio. In particolare, riferiscono fonti locali, è usato molto da alcune tribù al confine tra Kenya e Somalia, come gli Orma e i Bravani. Stando ai primi commenti, era stato ipotizzato che l’attivista avesse indosso l’abito che era stata costretta a portare durante la sua prigionia nelle celle terroristiche. Invece, la scelta è stata sua. Sua, anche la decisione di convertirsi all’Islam. L’abito, tuttavia, è verde, colore che solo in maniera controversa simboleggia l’Islam: il colore del Profeta era infatti il nero, mentre il verde è un fattore culturale che indica quello che gli arabi del deserto non avevano: la verzura. Infatti, nel Corano si parla del Paradiso come “verde anzi verdissimo”.
“Probabilmente si è vestita come ha potuto”, aveva ipotizzato Hamza Piccardo, esponente di spicco della comunità islamica italiana. “Vedremo se continuerà così o troverà abiti più consoni al fatto di essere sì musulmana ma anche italiana”, ha aggiunto l’imam e traduttore del Corano. Il termine jilbab, riporta Il Corriere, si riferisce comunque a qualsiasi abito lungo a largo indossato da donne musulmane per rispettare il precetto coranico della modestia femminile. La scelta dell’abito resta forse un’incognita, ma la conversione no. E’ stata la ragazza, come dichiarato agli 007, a convertirsi all’Islam: liberamente. Quando è diventato palese che sarebbe rimasta in quello specifico nascondiglio sotto sorveglianza, ha chiesto un taccuino e il Corano. “Mi hanno sempre portato rispetto. E anche la conversione all’Islam è stata una mia scelta, non ho ricevuto alcuna pressione. Ci sono arrivata lentamente, più o meno a metà prigionia, non è stata una svolta improvvisa”, ha raccontato durante l’interrogatorio parlando dei suoi aguzzini. Una decisione culminata con la Shahada, il rito della testimonianza di fede. “La cerimonia di conversione è durata pochi minuti, in cui ho espresso la mia volontà a diventare musulmana. Ho recitato le formule per manifestare la mia convinzione che non c’è Dio all’infuori di Allah”, ha detto Silvia.
Di fronte al pubblico ministero Sergio Colaiocco e ai Carabinieri del Ros, la ragazza ha ricostruito i suoi 18 mesi di prigionia, cominciati il 20 novembre 2018 in un villaggio del Kenya. Così, adesso si chiama Aisha. “Mi hanno detto che non mi avrebbero fatto del male, che mi avrebbero trattata bene. Ho chiesto di avere un quaderno, sapevo che mi avrebbe aiutata“, ha raccontato. Ciò che trapela, dalle sue parole, è una strana rassegnazione, quasi compassionevole, verso chi le ha tolto la libertà. “Sono sempre stata chiusa nelle stanze. Leggevo e scrivevo. Ero certamente nei villaggi, più volte al giorno sentivo il muezzin che richiamava i fedeli per la preghiera”: forse, è stata proprio la condizione che ha vissuto ad averla spinta verso la conversione.
C’è chi ipotizza, in queste ore, che quanto accaduto alla ragazza abbia a che fare con la Sindrome di Stoccolma, una condizione psicologica particolare nella quale le vittime di un rapimento si affezionano ai loro sequestratori. Fonti investigative, infatti, hanno ipotizzato che la conversione all’Islam della giovane volontaria possa essere frutto della situazione psicologica legata al contesto in cui ha vissuto per 18 mesi. Secondo gli esperti, la sindrome deriva dallo stato di dipendenza che si crea tra il rapito e i rapitori, i quali controllano elementi essenziali come cibo, aria, acqua e sopravvivenza. Derivano da qui, i sentimenti di gratitudine e riconoscenza che si manifestano, secondo un meccanismo difensivo. Simile alla sindrome da stress post-traumatico, riferisce Agi, la condizione psicologica potrebbe essere comunque temporanea. La convivenza forzata e prolungata tra vittima e rapitore, unita alla mancanza di forti esperienze negative, facilita l’insorgenza della sindrome di Stoccolma. Silvia Romano, ad esempio, ha raccontato di non aver subito violenze e di essere stata trattata bene dai suoi sequestratori. Attualmente, non ci sono riscontri scientifici su quanto accaduto alla volontaria.
Ma le critiche fioccano. Nicola Porro, nella sua rassegna stampa, fa notare che la tunica islamica è il segno dei suoi sequestratori: un segno portato addosso, in modo fiero, orgoglioso: mentre dello Stato italiano, lì ad attenderla, non c’è stata traccia in Silvia. “Dopo un sequestro, vedere un’italiana convertita mi fa impressione”, dice Porro. E non è l’unico. Il punto, su cui si sono soffermate le prime pagine dei giornali questa mattina, è la sua conversione. Ma che Silvia, rapita dai terroristi islamici, scelga di sposare la religione di chi l’ha privata dei suoi diritti fondamentali per 18 mesi, resta un suo affare, personale, libero, e consentito, dicono molti. Ma sono altrettanto legittimi i dubbi di chi storce il naso. I dubbi di chi ha paura che si possa realmente decidere di sposare mentalmente qualcosa che ci blocca, che ci impedisce di vivere. I dubbi di chi non capisce perché abbiamo speso 4 milioni di euro per salvare una vita umana che, probabilmente, avrebbe potuto essere più riconoscente.
Fonte: Agi, Corriere, Il Fatto quotidiano
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