Controllo a distanza e registrazione dei nostri spostamenti, cosa ci attende dopo il Lockdown

L’app di tracciamento contatti “Immuni”, scelta dal Governo come strumento per arginare l’epidemia di Coronavirus nella fase 2, apre diverse questioni sull’uso del digitale e i rischi che questo comporta.

immuni applicazione - Leggilo

Si chiama “Immuni”. Sviluppata dalla Bending Spoons, è l’applicazione per iOS e Android prescelta dal Governo italiano per il contact tracing dei soggetti risultati positivi al virus, strumento indispensabile nella “fase 2” dell’emergenza Covid-19. Il download sarà gratis e su base volontaria, mentre i criteri di azione sono tre: capacità di contribuire tempestivamente al contrasto del virus; conformità al modello europeo delineato dal Consorzio PEPP-PT; garanzie per il rispetto della privacy. A quest’ultimo proposito, la Bending Spoons sarebbe stata scelta proprio perché ha escluso un’invasiva soluzione basata su GPS, non in linea con le linee guida europee, si legge su Agenda digitale. Soluzione invece scelta da Singapore e dal modello asiatico. L’applicazione sarà inizialmente sperimentata in alcune Regioni pilota, per poi essere adottata a livello nazionale probabilmente verso fine maggio.

L’app sarà divisa in due parti: una dedicata al contact tracing vero e proprio (via Bluetooth); l’altra destinata ad ospitare una sorta di “diario clinico”, in cui l’utente può annotare tempo per tempo dati relativi alle proprie condizioni di salute, come la presenza di sintomi compatibili con il virus. Trattandosi di uno strumento volontario e visto il fatto che in Italia non tutte le fasce di popolazione hanno adeguata dimestichezza con gli smartphone, il problema principale potrebbe essere proprio quello di un mancato raggiungimento di una soglia di adesione sufficiente per garantirne l’efficacia. Ma il problema potrebbe essere un altro e di altra natura: l’esigenza di tutelare la salute pubblica, l’utilizzo massiccio di dati riguardanti la geolocalizzazione dei fruitori dell’app, potrebbe comportare la violazione dei principi di proporzionalità e necessità previsti dalla Convenzione Europea sui diritti dell’uomo (art. 8 CEDU), oltre che nella Carta dei diritti fondamentali dell’UE (artt. 7 e 8 Carta di Nizza).

Dal punto di vista della tutela della privacy, il Garante italiano Antonello Soro ha già espresso diverse preoccupazioni, affermando di non essere stato coinvolto nella valutazione dell’applicazione. Voci dubbie, scrive Repubblica, si sono levate anche da alcuni politici. Scettico Alessandro Morrelli, deputato e Presidente della commissione Tlc alla Camera, il quale ha denunciato che non ci sarebbe “alcuna garanzia per la privacy degli italiani e sulla sicurezza dei server”. Il M5s invece, ritiene l’applicazione fondamentale per tenere sotto controllo la diffusione del Coronavirus e limitare nuovi focolai nella fase 2. Mentre il PD ha parlato di “una questione di sicurezza nazionale“.

Privacy e Covid-19

E in effetti, le polemiche sull’applicazione invadono campi di analisi molto più ampi. L’uso di tecnologie e dati digitali svolge un ruolo importante nelle strategie di sanità pubblica attuate dagli Stati per contrastare l’epidemia COVID-19. Ma quali sono i pericoli? Non rischiamo, in questo modo, di cedere ogni nostra più intima libertà e di finire immersi, in men che non si dica, in un universo Orwelliano da 1984? Si guardi all’Asia, ad esempio. Il modello ha funzionato, sembra, ma le libertà a cui gli utenti hanno rinunciato – forse senza neanche rendersene conto – sono state immense. Si guardi alla proposta, senza dubbio malsana, di braccialetti elettronici per anziani. La base volontaria, cioè quel margine di azione lasciata ad un uomo qualsiasi di poter almeno decidere se prestare il consenso o negarlo, ci illude in realtà che abbiamo ancora controllo quando il digitale ci invade. Se c’è chi parla di dittatura dell’algoritmo – basata cioè sul trattamento automatizzato dei dati – qui il rischio sembra essere ancor più grave. Una dittatura camuffata dal merito che il gesto di consentire un controllo in nome di un bene comune potrebbe garantirci. Come dire: cedo qualcosa, ma almeno agisco per tutelare gli interessi di altri.

E invece no. Non dovrebbe essere così. La dittatura è dittatura sempre. La privacy è privacy sempre. Il potere generato dall’accesso e dal trattamento di grandi moli di dati personali è in grado di modificare profondamente i rapporti e le relazioni tra le persone. Inoltre, il diritto alla protezione dei dati personali, arrivato dopo anni di lotta, sembra essere diventato in questa circostanza un surplus aggiuntivo. Qualcosa di cui poter fare a meno, in cambio di sicurezza sulla propria salute. “Ma i sistemi di sorveglianza e profilazione di massa resi possibili dalle tecnologie digitali” – aggiungerei, da un uso malsano delle tecnologie digitali – “generano facilmente diseguaglianze e discriminazioni”, fanno notare dal Nexa Center fort Internet & Society.

La scelta di un’app può significare due cose: determinare se siamo in grado di utilizzare la tecnologia per proteggerci e migliorare le nostre esistenze, un’ipotesi alquanto ottimistica; oppure, consolidare o creare nuovi poteri per realizzare una società della sorveglianza che annullerebbe la dignità della persona. “La privacy può subire limitazioni in emergenza, ma conformemente alle garanzie previste dalla normativa a protezione dei dati”, scrivono i firmatari dell’appello lanciato dal Politecnico di Torino. Concludendo, la preoccupazione è che si possano insinuare interessi che hanno priorità diverse da quella della tutela dei diritti fondamentali dei cittadini e che quindi siano adottate e implementate soluzioni in deroga alla normativa a protezione dei dati.

“Possiamo scegliere il futuro?”

“Il digitale fa bene o male? L’intelligenza artificiale crea o distrugge posti di lavoro? I social network migliorano o peggiorano le relazioni?“. Sono solo alcune delle domande che Stefano Epifani, professore di Internet Studies all’Università degli studi di Roma “La Sapienza” e Presidente del Digital Transformation Institute, si pone nel suo ultimo libro “Sostenibilità digitale”. Domande che ritornano in questi giorni in maniera sempre più insistente, dal momento che le opportunità del digitale e le sue sfaccettature sono state messe al servizio dell’uomo comune per permettergli di proseguire alcune delle sue attività che, altrimenti, non avrebbe più potuto portare a termine. Smart working, didattica a distanza, videoconferenze online: senza la tecnologia digitale, tutto questo non sarebbe stato possibile. Siamo immersi in un mondo elettronico, un mondo di comunicazione a distanza, un mondo fatto di distanze accorciate da schermi. Il digitale è insomma apparso al mondo – scombussolato e stravolto da una pandemia che non ci aspettavamo – per ciò che è: un’opportunità, una risorsa. Forse l’unica possibile. Ma ritornando alle domande di prima, la risposta è solo una ed è semplice: sbagliamo le domande. Quelle domande, domande che ci poniamo – ciascuno a suo modo e in maniera differente – da quando l'”internet delle cose” ha cominciato a segnare ogni aspetto della nostra vita, sono sbagliate.

E lo chiarisce, Stefano Epifani, già nelle prime righe del suo libro: “La domanda più importante che dovremmo porci è quanto e come la tecnologia può contribuire a migliorare le nostre vite, diventando strumento di sostenibilità”. Un argomento estremamente delicato ed anche estremamente attuale, che ha attirato l’attenzione di esperti del settore già precedentemente focalizzati sul tema. Perché, se il digitale è una sfida, a giocare la partita siamo noi, con le nostre scelte. E siamo sempre noi ad avere nelle mani il potere di dirottare questi strumenti verso la giusta via. “Al capitalismo di piattaforma, si potrà infatti sostituire un cooperativismo di piattaforma“, scrive in prefazione l’economista Enrico Giovannini, Presidente dell’Istat fino al 2013 ed ex Ministro del lavoro e delle politiche sociali durante il Governo Letta. E se il digitale ci è venuto in soccorso durante la fase 1 dell’epidemia, così sarà anche nella fase 2. Ma qual è il confine tra risorsa e controllo? Quali sono i rischi che implica l’uso del digitale da parte di poteri terzi? Quale distanza intercorre tra misure restrittive e monitoraggio costante delle nostre vite con conseguente violazione dei nostri diritti individuali? Ma facciamo un passo indietro.

E tra opinioni divergenti, favorevoli e contrari, attese e speranze, le cose sembrano fare il proprio naturale decorso. In questi giorni, scrive Ansa, una delle applicazioni proposte al governo olandese, Covid19 Alert!, ha subito un “data breach“, cioè una esposizione di dati. Circa 100-200 nomi, email, password criptate sono state rese pubbliche. “Un errore umano, in mezz’ora abbiamo risolto”, dice uno dei creatori dell’app Covid19 Alert!, come se bastasse. Ma errori umani non concordano con uso corretto delle tecnologie. “Possiamo scegliere il futuro?“, si chiede Stefano Epifani nel suo libro. A quanto pare si. Ciò che non possiamo scegliere, ciò che può sfuggirci, è che l’illusione di mantenere il controllo sulle situazioni ci induca al rischio opposto: essere controllati, costantemente, rinunciando a tutte le libertà che abbiamo con tenacia conquistato.

Chiara Feleppa

Gestione cookie