Dopo il 4 Maggio: 50.000 imprese e 300 mila posti di lavoro a rischio. Il futuro mai così incerto

La Fase 2 prende concretezza, ed oggi riusciamo ad immaginarci cosa accadrà dopo il 4 maggio. La pressione dei lavoratori esclusi dalle riaperture – come parrucchieri ed estetiste – continua, visto che i rischi e i danni del lockdown avranno un impatto fortissimo sul terzo settore.

Conte lockdown - Leggilo

La “fase 2“, la cui esistenza è stata per giorni solo ideologica, ora prende concretezza. C’è un piano, all’orizzonte; e ai forse che hanno preso forma ogni giorno sembra essersi sostituita qualche certezza. Ora sappiamo cosa riaprirà, ma molti non sanno come. E se guardiamo al mondo intero, mentre l’economia cinese – che per intenderci mantiene in piedi il sistema di mezzo pianeta – va a picco e quella americana pure, la Germania riapre, la Francia anche, l’Inghilterra si avvia verso il riavvio. Perché, senza ombra di dubbio, si può ricorrere a soluzioni estreme per un periodo limitato di tempo. E anche perché, il gioco non vale la candela. L’Italia? Non è pronta. Dopo due mesi e mezzo dallo scoppio dell’emergenza – intercorsi 20 giorni persi dal primo caso di Codogno all’annuncio di misure restrittive – non siamo ancora pronti. Lo saremo, forse, dal 4 maggio, a passi piccolissimi.

“In queste ore continua senza sosta il lavoro del Governo, coadiuvato dall’ équipe di esperti, al fine di coordinare la gestione della fase due”, aveva scritto il Premier Giuseppe Conte sul suo profilo Facebook qualche giorno fa, prima dell’annuncio del nuovo Dpcm in vigore dal 4 maggio. Ma l’annuncio di ciò che sarà consentito dalla prossima settimana è stata una pillola amara, per lavoratori e cittadini. Le pressioni al Governo diventano sempre più insistenti, e Conte lo sa. I cittadini sono stanchi, quasi esausti, degli sforzi compiuti; le imprese e le attività commerciali chiedono di ripartire al più presto e chiedono, soprattutto, di avere indicazioni sulla riapertura. Per ora, informa Open, le informazioni sono confuse o comunque non ancora chiare. Le aziende stanno adottando misure estremamente dure, che consentono di mettere in sicurezza i conti, ma rischiano anche di aggravare la portata collettiva della crisi. Le misure più in voga per gestire questo momento di incertezza sono il ricorso agli ammortizzatori sociali, la riduzione degli stipendi per i manager e le fasce “alte” di compenso e la spending review. Quanto a quest’ultima voce, le imprese stanno rivendendo al ribasso tutte le voci di spesa, a partire di quelle dedicate ad eventi, viaggi, progetti speciali e iniziative non strettamente necessarie.

A rischio 300mila posti di lavoro

Allarme anche nel settore dei pubblici esercizi. Bar, ristoranti, pizzerie, catene di ristorazione, catering, discoteche, pasticcerie, stabilimenti balneari, con 30 miliardi di euro di perdite, vivono uno stato di crisi profonda. Sarà consentito ad alcuni di loro proseguire l’attività di consegna a domicilio e asporto, attività che non basta a coprire le spese. “Il rischio è che 50.000 imprese chiuderanno e 300 mila posti di lavoro andranno perduti”, sostiene la Fipe-Confcommercio su Agi. Molti imprenditori starebbero maturando l’idea di non riaprire l’attività, in quanto le misure di sostegno per il comparto sono ancora gravemente perché insufficienti.

Per la Fipe, gli interventi sin qui messi in campo dal Governo sono solo una risposta parziale: la liquidità non è ancora arrivata e la garanzia al 100% dello Stato per importi massimi di 25.000 euro è una cifra lontanissima dalle effettive esigenze delle imprese per far fronte agli innumerevoli costi da sostenere. La burocrazia, inoltre, costringe le imprese ad anticipare i pagamenti. Sulle tasse, inoltre, non ci sono state cancellazioni ma solo un differimento. “Con la riapertura del Paese – dichiara il presidente di Fipe-Confcommercio, Lino Stoppanigli italiani rischiano di non trovare più aperti né il bar sotto casa, né la trattoria di quartiere”. Per questo, l’ultima richiesta è quella di un pacchetto di richieste al Governo: risorse vere a fondo perduto per le imprese parametrate alla perdita di fatturato; moratoria sugli affitti; sospensione pagamento delle utenze; prolungamento degli ammortizzatori sociali fino alla fine della pandemia; reintroduzione dei voucher per il pagamento del lavoro accessorio; possibilità di lavorare per asporto, come avviene in tutta Europa; concessione di spazi all’aperto più ampi nel periodo di convivenza con il virus, per favorire il distanziamento sociale e permettere agli esercizi di lavorare.

Ma, per Giuseppe Conte, per la riapertura bisognerà attendere ancora un po’, se siamo fortunati, in quanto non è possibile affidarsi a decisioni estemporanee pur di assecondare una parte dell’opinione pubblica o di soddisfare le richieste di alcune categorie produttive, di singole aziende. L’allentamento delle misure dovrà avvenire sulla base di un piano ben strutturato e articolato e bisognerà riaprire sulla base di un programma serio, scientifico. Programma reso noto nell’ultima conferenza e a cui hanno lavorato i numerosi esperti delle task-force a lavoro da giorni e giorni per offrire una riorganizzazione delle modalità di espletamento delle prestazioni lavorative, un ripensamento delle modalità di trasporto, nuove regole per le attività commerciali.

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Ciò che è certo, è che nell’opinione pubblica c’è stato un cambiamento di rotta. Anche chi pensava, mesi fa, che il lockdown fosse l’unica soluzione possibile, si è ricreduto quando ha notato che gli effetti della quarantena avrebbero dovuto vedersi dopo circa due settimane dalla messa in atto. In una situazione d’emergenza ricorrere ad una soluzione estrema sembrava, a noi comuni mortali come ad esperti, l’unica cosa sensata da fare. Circa un mese fa. Ma, ad oggi, le cose sono cambiate. Dopo ormai settimane di isolamento, la situazione è questa: siamo ancora in una situazione emergenziale, placata solo apparentemente da una curva epidemica che si è stabilizzata. Un miglioramento c’è stato, quindi, ma non tale da permettere la riapertura, non tale da parlare di discesa, ma solo di stabilizzazione. Quindi, o qualcosa non ha funzionato…. o qualcosa non ha funzionato.

Dopo qualche timore iniziale, ciascuno di noi sembra essersi abituato all’idea che la chiusura fosse l’unica strada possibile e che lo sia tutt’ora. Ma è davvero così? Siamo ancora sicuri che vivere in uno stato di detenzione domiciliare ci protegga? Siamo sicuri che la mancanza della libertà ( art.2 Costituzione ), la mancanza dell’aria, la mancanza del movimento, della routine, dell’affetto, del rapporto con i nostri cari, non abbiano ripercussioni ancora più gravi sul nostro futuro? Il lockdown ci protegge dal #COVID19 ma non da altre patologie. Qualche esempio? Ansia, depressione, attacchi di panico, dispnea, disturbi dell’umore, disturbi del sonno, fobie. Non valutiamo i danni ai bambini, agli adolescenti, alle mamme lontane dai figli? Non valutiamo l’impatto sociale e sulla salute psico-fisica che queste misure stanno avendo sulla nostra vita? Non valutiamo il prezzo di tutte le nostre rinunce? E non valutiamo neanche quanto tempo impiegheremo, mentalmente, per riprendere in mano la nostra vita? Non valutiamo i danni che la paura, il terrorismo psicologico, il senso di oppressione e impotenza avranno nel nostro domani?

E’ stata fatta una scelta, al governo. Salute o economia? Salute. Abbiamo fatto ciò che poteva e doveva essere fatto. Abbiamo agito, tardi, per limitare i danni. Ma se l’obiettivo è una convivenza con il virus – visto che debellarlo non rientra tra le prospettive possibili – cosa aspettiamo? Quanto ancora vogliamo credere che il modo in cui ci proteggiamo dal virus non ci stia uccidendo? Non c’è da contare solo la perdita del Pil stimata al -9% per l’Italia (Fmi) o delle imprese (2,1, mln a rischio secondo l’Istat), ma anche i lavoratori che probabilmente da qui a qualche mese saranno dimezzati. E, restando sulla salute, la salute non è solo l’assenza del virus. E’ anche altro. E non avere il Covid-19 non ci rende automaticamente sani.

Soffriamo, in modi diversi, ma soffriamo. Ci stiamo deteriorando, mentalmente e fisicamente, nelle mura delle nostre case in cui siamo rinchiusi. Siamo ad un passo dall’isteria di massa, dall’esaurimento nervoso, mentre ci illudiamo che ciò che ci è stato tolto fosse l’unico modo per salvarci. I bambini, che non possono andare in un parco, neanche isolati, soffrono. I bambini, che non vedono gli amichetti e che improvvisamente si ritrovano a perdere i riferimenti – la scuola, in primis – soffrono. Le persone comuni, sole, soffrono. E pagheranno, pagheranno tutto. Stare in casa ci protegge dal virus. Ma ci espone a chissà quanti altri rischi che potrebbero fare più danni del virus stesso.

Chiara Feleppa

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