Repubblica Ceca, Austria, Danimarca e Norvegia hanno deciso di allentare la presa sulle misure restrittive per cercare di limitare il disastro economico. Anche la Spagna ha avviato la riapertura di alcune attività non essenziali, negli uffici, nei cantieri dell’edilizia e nelle imprese manifatturiere. Seguono Germania e Regno Unito, mentre la Francia aprirà le scuole dopo l’11 maggio. L’Italia, invece, è ancora ferma.
“Italia indietro nelle riaperture”. Si apre così l’editoriale su La Repubblica di Tommaso Ciriaco e Annalisa Cuzzocrea. In effetti, rispetto agli altri Paesi UE, il nostro Paese sembra essere in ritardo. Se l’Italia ha prorogato il lockdown fino al prossimo 3 maggio, altri Paesi nel resto d’Europa fanno da apripista per la riapertura. È il caso di Repubblica Ceca, Austria, Danimarca e Norvegia, che hanno deciso di allentare la presa sulle misure restrittive per cercare di limitare il disastro economico che, oltre ad essere all’orizzonte, è stato anche confermato e previsto dagli economisti del Fondo Monetario Internazionale. Perfino la Spagna, uno dei Paesi più colpiti dalla pandemia, ha iniziato da lunedì ad allentare le severe restrizioni permettendo la riapertura di alcune attività non essenziali, negli uffici, nei cantieri dell’edilizia e nelle imprese manifatturiere. E anche Germania e Regno Unito stanno definendo i tempi e le modalità della fase due, mentre la Francia di Macron, informa Le Figaro , proseguirà la chiusura fino all’11 maggio, per poi ricominciare dalla riapertura delle scuole, che invece in Italia saranno con molta probabilità le ultime a riprendere.
Per prepararsi alla fase 2, il Governo di Giuseppe Conte ha chiamato a Palazzo Chigi una task-force di 16 esperti in materia economica e sociale che ha il compito di individuare gli strumenti tecnologici per studiare, censire e contenere il contagio da Coronavirus. Altri 74 sono invece a lavoro per studiare le opportunità che il digitale – attraverso app e tracciamento di massa – potrebbe offrire nella fase due. Il Comitato, presieduto da Vittorio Colao, opererà in coordinamento con il Comitato tecnico scientifico. E’ infatti sempre a quest’ultimo che spetta l’ultima parola, ha chiarito Conte; ma proprio gli esperti sostengono che per la fase 2 sia ancora troppo presto. Roberto Bernabei, geriatra del Gemelli, ha smorzato gli entusiasmi emersi dall’andamento dei contagi di questi giorni: la curva si è abbassata, ma non in modo tale da permettere la riapertura, sostiene il medico. La tesi degli scienziati, e anche del Ministro della Salute Roberto Speranza, è chiara: per aprire, è troppo presto.
Dall’altro lato, ci sono le pressioni degli economisti e del Fondo monetario internazionale, che ha stimato una perdita in Italia del Pil del -9,1%. Anche secondo Confindustria la riapertura deve essere rapida per evitare un crollo totale del sistema economico – che si avvia verso la recessione – e danni irreparabili. “Giuseppe Conte è insomma accerchiato da mille fuochi e l’Italia rischia una fase 2 lenta“, scrivono gli editorialisti di Repubblica. Forse non a torto. La fine del lockdown resta incerta e le voci da Palazzo Chigi restano tutte confuse e vacillanti. Dal Governo una serie di iniziative – come il tracciamento dei malati, la diffusione dei tamponi, la nascita di Covid-hospital, un’assistenza domiciliare adeguata – sembrano essere voci di corridoio che stenteranno a realizzarsi in fatti concreti. Ad aumentare la confusione c’è la soglia di libertà dalla alle Regioni e ai loro venti governatori che possono così disattendere i decreti di Palazzo Chigi, come fatto da Luca Zaia nel Veneto, ad esempio. Tavoli su tavoli, troppi esperti e troppe decisioni. Ma la scelta, alla fine dei giochi, spetta a Conte.
Quasi 9 milioni di lavoratori a rischio
E, ad oggi, sono troppe le incertezze. Sul tracciamento tramite App, sui dispositivi di sicurezza, sui trasporti, sui turni di lavoro, sui fondi, sui test sierologici. Ma il problema rimane quello: il lavoro. Danni inestimabili, rimedi che non colmeranno i vuoti. “Ci sono 8,8 milioni di lavoratori a casa, e sono tutti posti di lavoro potenzialmente a rischio”, ripete Licia Mattioli, vicepresidente di Confindustria, in un’intervista al Corriere. Non si sa ancora, infatti, quante delle aziende chiuse riapriranno, e inoltre le produzioni italiane chiuse rischiano di essere soppiantate da altre imprese straniere che approfittano del blocco del made in Italy.
I settori a rischio sono diversi. In primis, i fornitori della meccanica – un settore che continua a chiedere macchinari, componenti, ricambi e assistenza – che in assenza di certezza sulle consegne delle forniture non si rivolgeranno in Italia ma altrove. A rischio anche la moda e il settore tessile, visto che le collezioni estive e le presentazioni sono saltate. Fermo anche il settore della ceramica e dell’acciaio. Mentre si discute del riavvio e della fase 2, bisognerebbe per la Mattioli avere più certezze: “Se il termine è il 14 maggio, dobbiamo consentire già da oggi alle aziende di organizzare un piano di riapertura ordinato che garantisca sicurezza e produzione”.
Ciò che oggi è chiaro alle alle imprese, agli economisti, ai medici, ai cittadini, è che la gravità del problema non è stata compresa. Troppi ritardi, troppe attese, troppi cambi di prospettiva. Partendo dall’Oms che ha affermato, il 22 febbraio scorso, di essere di fronte a una banale influenza con un basso tasso di letalità, per finire ad Angelo Borrelli che ogni giorno riferisce numeri nella totale consapevolezza di un’inattendibilità dei dati. Le esigenze a cui rispondere, ad oggi, sono tre: risolvere il problema sanitario; comprendere quanto sia urgente il tema del lavoro e della salvaguardia dell’occupazione; scongiurare uno scollamento nella tenuta del patto sociale. “Serve un piano di azioni con delle tappe chiare e definite. Usciremo dalla crisi ancora più indebitati e con più interessi da pagare, che sottrarranno risorse a scuola, sanità e tutte le misure per rilanciare il Paese”, chiosa Licia Mattioli.
Fonte: Repubblica, Il Corriere