Era il 1997 quando l’Albania viveva una crisi senza precedenti, passata alla cronaca come “anarchia albanese”. Allora, migliaia di persone, specie giovani, tentavano di passare la frontiera per arrivare in Italia in cerca di fortuna. Sedeva a Palazzo Chigi Romano Prodi con la sua squadra di Sinistra. E no, non si aprirono i porti. L’ex Premier optò per un blocco navale.
Il caso Sea Watch può essere inteso in modo circoscritto – se pensato come l’ennesima Ong che prende i migranti in mare, li carica su un’imbarcazione e li fa sbarcare dopo un contenzioso con il Governo – oppure in maniera più ampia come fenomeno generale. In quest’ultima accezione, le problematiche e le questioni, tutte abbastanza spinose e di non facile risoluzione, sono diverse e varie. Dal ruolo della Magistratura, alle leggi giuridiche che si scontrano con quelle “umane“, alla definizione di porto sicuro, alla legittimità di ogni azione decisa e conclusa dalla Capitana al timone dell’imbarcazione. Problemi che hanno diviso l’opinione pubblica e che si sono posti come interrogativi. Come sarebbe stato giusto agire? Cosa sarebbe dovuto essere stato fatto? Dove ha sbagliato Carola Rackete? Ma il problema di fondo, alla base di tutto, resta uno: la questione immigrazione e quale sia l’approccio migliore per gestire l’allarme migranti. E se la linea del Viminale sulla chiusura dei porti e delle frontiere è stata chiara fin fa quando Matteo Salvini è salito al Governo, andando indietro nel passato l’approccio politico scelto dal Vicepremier sembra avere un precedente.
Era il marzo del 1997 e allora sedeva a Palazzo Chigi Romano Prodi da un anno. Con lui, c’era Lamberto Dini come Ministro degli Esteri; Beniamino Andreatta alla Difesa; all’Interno Giorgio Napolitano; e come Ministro dei Trasporti e della Navigazione Claudio Burlando. Se oggi la maggior parte dei migranti parte dalla Libia – in preda ad una sanguinosa guerra civile – allora era l’Albania il punto di partenza per cercare fortuna. Il Paese viveva una forte crisi politica – nota alle cronache come “anarchia albanese” – oltre che una crisi economica disastrosa. La caduta del comunismo, infatti, si riversò in una situazione di caos generale e portò alla luce gli strascichi lasciati dai regimi rossi. Emerse l’arretratezza economica – derivante da un’economia di stampo marxista – e anche l’isolamento dell’Albania dal resto dell’Europa. Il Pil crollò del 50% e molte imprese – a causa dei tentativi di rilanciare gli investimenti con prestiti e finanziamenti – fallirono. Tutto ciò determinò proteste ma anche la nascita di molti clan dediti alla delinquenza che raggiunsero primati in campo di crimine organizzato.
Per questa serie di fattori, in quegli anni molti albanesi, soprattutto giovani, emigrarono, cercando all’estero fortuna. Cosa fece il Governo della sinistra quando migliaia di immigrati albanesi tentarono di lasciare i Balcani via mare e approdare sulle coste della Puglia? Non aprì i porti e non si prodigò per salvarli. Ci fu, al contrario delle aspettative, un vero e proprio blocco navale definita dall’allora Premier “attività volta soprattutto a stroncare la malavita organizzata che gestisce gli espatri“. Così Prodi – come ricorda un documento del 2 aprile 1997 – spiegava alla Camera che il Ministro Napolitano “si era adoperato senza risparmio per impartire direttive e formulare proposte legislative che hanno consentito un’attenta vigilanza intesa a garantire che chi ha bisogno di aiuti e di accoglienza dal nostro paese la abbia, come è giusto che sia, ma chi invece appartiene alla delinquenza organizzata sia tempestivamente e doverosamente espulso o respinto”.
Nessuno contro Prodi
Riprendendo la stampa di allora, anche Repubblica – il suo indirizzo politico non è un mistero – sembrava appoggiarne la linea. “Da ieri è scattata la linea dura. Non sono più profughi, ma immigrati non in regola. E quindi vanno respinti”, scriveva in un articolo – dal titolo “Blocco navale per fermare gli albanesi” – del 25 marzo 1997. Ci si chiede, allora, perché il blocco navale a firma Lega rende i profughi ostaggi e perché, vent’anni fa, non era così. E perché il politically correct nel definire un migrante come “rifugiato in fuga dalla guerra” allora non valeva e chi arrivava veniva definito profugo – cosa che tra l’altro era. Walter Veltroni, ad esempio, si oppone in modo neanche celato alla politica di Salvini. Nel 1997 era Vicepremier e non fece lo stesso con Prodi.
Con il blocco voluto dal Professore, l’Italia si impegnò a fermare con mezzi navali l’emigrazione in massa dell’Albania, attraverso manovre di allontanamento in mare per intimidire i barconi carichi di immigrati e costringerli a fare marcia indietro. Solo due giorni dopo la firma, la motovedetta albanese Katër i Radës venne speronata da una nave della Marina italiana Sibilla causando 81 morti e 27 dispersi. Di quel periodo, però, Romano Prodi ricorda poco. Ospite a Mezz’ora in più, su Rai1, qualche sera fa, diceva: “Me lo ricordo il dramma con l’Albania, mi ricordo anche il momento drammatico di quando andai ai funerali. Si tratta di capire quando c’è umanità, di evitare incidenti. Con l’umanità si devono risolvere le controversi. Non c’è solo la legge astratta, questa va rispettata. Ma con l’umanità e la comprensione si risolvono i problemi”. Prodi, insomma, era comunque più umano di Salvini. O almeno, questo è ciò che si vuole far credere. Ma l’apparenza, spesso, inganna.
Chiara Feleppa
Fonte: Rai1, Repubblica, Camera dei Deputati seduta n. 173 del 2.4.1997, La7