Il rimpatrio dell’immigrazione irregolare è tutt’altro che semplice. Un motivo in più per impedire gli sbarchi, garantendo la sicurezza.
Era gennaio dello scorso anno quando Matteo Salvini, prima di prendere in mano le redini del Governo dichiarava: “In Italia sono presenti 530 mila immigrati irregolari, se vinco le elezioni riempio gli aerei e li riporto a casa”. Numeri alla mano, nei primi sei mesi come Vicepremier e Ministro l’Interno, Matteo Salvini ne ha rimpatriati 3851, proseguendo la linea del suo predecessore Marco Minniti. Fu quest’ultimo, infatti, che iniziò a porre dei limiti alle operazioni di soccorso dei migranti, stringendo accordi con gli interlocutori libici e nigeriani per rallentare il transito di migranti. Nel giugno 2018, appena insediatosi, Salvini è passato a una linea più dura, fino alla chiusura dei porti alle navi che trasportano migranti.
L’azione dei due Ministri ha fatto sì che nel 2018 ne fossero rimpatriati 6820, cioè 18 al giorno. Parallelamente, mentre alcuni venivano riportati a casa, si sono ridotti anche i numeri di quelli che arrivavano. Come testimoniato dai dati ufficiali del Ministero dell’Interno, nell’anno appena trascorso sono sbarcati in Italia 23.370 migranti, un numero in netto calco rispetto ai 119.269 del 2017 e ai 181.436 del 2016. La diminuzione degli sbarchi era già iniziata nel luglio 2017, ed era proseguita fino a maggio 2018, durante il governo di Paolo Gentiloni, ed è poi drasticamente accelerata nei mesi estivi successivi all’insediamento dell’esecutivo guidato dal Premier Giuseppe Conte. Venendo al nuovo anno, i numeri sembrano proseguire su questa strada: dal 1 gennaio 2019 al 17 febbraio 2019 i rimpatri sono stati 867, 18 al giorno.
Sbarchi ridotti dell’80%, secondo la relazione del Dis
Questi numeri vengono confermati anche dal Dis – Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza – che in un report sull’immigrazione ha chiarito, in termini quantistici, la situazione degli sbarchi e dell’azione di Governo volta al contrasto degli ingressi nel nostro Paese. Il report ha evidenziato la diminuzione degli arrivi lungo le nostre coste dell’80% nel 2018 rispetto al 2017. “L’andamento complessivo dei flussi via mare ha conosciuto una contrazione senza precedenti degli sbarchi”, si legge nella relazione. Il dato si riferisce a tutte le tratte del Mediterraneo centrale: non solo chi viene dalle coste libiche, ma anche tunisine, algerine e turche.
D’altra parte, il Dis evidenzia anche che il rimpatrio degli immigrati irregolari è tutt’altro che semplice. E’ indispensabile, infatti, che il Paese d’origine riconosca l’immigrato come proprio cittadino, e per farlo sbarcare c’è necessità di cedere qualcosa, con degli accordi tra Stati. Attualmente, l’Italia ha accordi con Tunisia ed Egitto – dove ne sono stati rimpatriati 1 su 3; Marocco e Nigeria – 1 su 10. Ma la maggior parte degli irregolari proviene dal Senegal, dall’Africa Subsahariana e dal Sudan. Ma qui, gli accordi non ci sono. Tant’è che ne rimpatriamo solo il 7%, mentre la Francia il 10 % e la Germania il 9%. Perché l’Africa non trova conveniente fare accordi? Perché non “riprende” i propri cittadini? Perché, secondo le stime, un nigeriano mediamente manda a casa, ogni anno, 11 mila dollari; un senegalese 4 mila, un ganese 3 mila. Soldi che permettono, in quei paesi, di mantenere una famiglia di 6 persone in un anno.
Una questione economica e di interessi, quindi. E a questo proposito, la relazione del Dis mette in evidenza anche un altro dato fondamentale. “La diminuzione degli sbarchi si deve anche alla drastica riduzione delle navi delle Ong nello spazio di mare prospiciente le coste libiche”, si legge, “che, di fatto, ha privato i trafficanti della possibilità di sfruttare le attività umanitarie ricorrendo a naviglio fatiscente e a basso costo”. In sostanza, le navi Ong fungono da richiamo per i trafficanti: la loro attuale assenza dalle acque del Mediterraneo contribuisce all’abbassamento del numero delle partenze.
Le irregolarità della Sea Watch 3 e il ruolo delle Ong
La presenza delle navi delle Organizzazioni non governative – le Ong, appunto – hanno implicazioni nella gestione dei flussi. Non a caso, la Sea Watch 3 – l’imbarcazione approdata a Catania con i 47 migranti di cui si era fatta carico, soccorrendoli il 19 gennaio scorso vicino alle sponde libiche – era stata accusata di aver commesso delle irregolarità. La Guardia Costiera, effettuata un’ispezione amministrativa sull’imbarcazione, aveva rilevato “una serie di non conformità, riguardanti sia la sicurezza della navigazione, sia il rispetto della normativa in materia di tutela dell’ambiente marino”. Un totale di 32 irregolarità non conformi all’applicazione della Unclos, la Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare.
La Sea Watch 3, in particolare, come aveva comunicato anche il Ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli, è classificata come “plesaure yacht“, che secondo la legge italiana “per stazza e lunghezza” non potrebbe caricare migranti a bordo. Non così tanti, almeno. Il caso, ancora da chiarire, rimane attualmente al vaglio della Procura di Catania. I Giudici non hanno riscontrato alcuna “rilevanza penale” nell’operato della Ong: tuttavia, per i Pm, l’imbarcazione presenta “dati significativi” di “inidoneità tecnico strutturale”. In altre parole, non è adatta per il soccorso in mare, come riportato da La Stampa. Perché allora l’Olanda – Stato di bandiera – ha permesso all’imbarcazione di navigare? Perché le autorità olandesi hanno introdotto nella loro legislazione requisiti ulteriori per le imbarcazioni da diporto che intendano svolgere un’attività sistematica di soccorso dei migranti. Così, l’Ong può continuare a fregiarsi del “bollino” olandese, nonostante abbia evidenti limiti nell’ospitare “un numero di passeggeri ben più elevato di quello per il cui trasporto è stata concepita“. Fregandosene, in questo modo, della legislazione italiana in materia.
In pratica, le Ong servono da “taxi del mare” dal Nord Africa all’Italia, in un rapporto di qui pro quo con i trafficanti di esseri umani attivi sulla costa della Libia. Ci sono anche ipotesi di un “complotto” per la deportazione di forza lavoro a basso costo. Ad ogni modo, anche le Organizzazioni non governative presenti nel Mediterraneo sono calate dalle 12 del 2017 alle quattro rimaste sull’acqua ora: le tedesche SeaWatch e Mission Lifeline, la franco-tedesca Sos Méditerranée e la spagnola ProActiva. Se per definizione le Ong sono organismi no-profit – cioè svolgono il proprio lavoro senza fini di lucro, foraggiandosi con donazioni esterne – i finanziamenti sono spesso privati e arrivano da singoli cittadini, aziende e fondazioni. Ma gli interessi di partito non sono da escludere.
Controllare l’immigrazione
La riduzione degli sbarchi, l’aumento dei rimpatri, il calo dei morti in mare, vuol dire, a pensarci, che l’immigrazione può essere controllata. I flussi migratori diretti verso l’Italia non sono inevitabili, né necessari. Anzi, l’immigrazione si può frenare o accelerare – in base al tornaconto di interessi che si ha nel gestire la situazione migranti. In altre parole, se si pensa comunemente all’immigrazione – regolare o irregolare – come qualcosa di naturale e spontaneo, questo non lo sarebbe affatto. E soprattutto, non appare un fenomeno che va da solo, per conto suo, ma anzi può essere affrontato e gestito, nonostante la sua complessità.
E se una politica di accordo per la gestione dei flussi tra gli stati membri dell’UE, chiesta a gran voce e a più riprese dall’Italia, appare lontana, vanno considerati, nel valutare il fenomeno immigrazione, non solo i principi morali, ma anche la realtà. Più si aumenta il soccorso in mare, più le reti criminali di trafficanti di esseri umani sono facilitate. Automaticamente, più migranti si gettano in mare tentando la fortuna, sapendo di essere soccorsi. La riduzione delle Ong, di contro, costituisce “un disincentivo ad imbarcarsi“, soprattutto su imbarcazioni poco adatte: indirettamente, salva più vite umane. Infatti, nel 2016, sono morti nel Mediterraneo centrale oltre 4.700 migranti. Nel 2018, il numero di vittime è sceso a poco più di 2.000, con una riduzione superiore al 50%.
In conclusione, a tener conto del “principio morale alla vita”, pare proprio che si miri a proteggerli più ora, che gettandoli in mezzo al mare, tentando la sorte. La riduzione degli sbarchi, in sostanza, salva molte più vite umane di quando le porte sono aperte.
Chiara Feleppa
Fonti: Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza, La Stampa