Non fuggono solo dalle guerre, dalle carestie e dalla povertà. Fuggono anche dai mariti violenti, preferendo lasciare il loro Paese, giungere in un’altro, la Libia, senza mezzi conoscere la lingua. Dopo, ancora senza un soldo, senza conoscere l’inglese e l’italiano preferiscono attraversare il Mediterraneo e rischiare di morire su un’imbarcazione incerta. Se non fosse accorsa Open Arms a soccorrere e a fotografare. E subito dopo twittare. Insultando gli italiani. Sul marito violento nessuna parola di censura. Josefa, la donna africana salvata la settimana scorsa dalla nave della Ong spagnola ha raccontato la storia della sua vita. Una storia di violenza e abusi che avrebbero costretto questa donna, originaria del Camerun, ad una serie di scelte drastiche fino al momento in cui si è trovata per almeno 48 ore alla deriva in pieno Meditterraneo, sui resti di un imbarcazione naufragata. Le donne versava in grave rischio di ipotermia e sarebbe morta se non fossero intervenuti gli uomini di Open Arms a salvarla. Le operazioni sono state immortalate da una serie di scatti a loro modo memorabili, che hanno fatto presto il giro del mondo. Come ben immaginavano gli spagnoli. Non ci sono documenti su quanto accaduto realmente a Josefa in mare e su quello che è accaduto prima. Ci sono le parole, quelle della donna africana. Ma non c’è un’intervista, al momento. Solo racconti, da parte di Open Arms
Secondo quanto riferito da Oscar Camps, fondatore della ong Proactiva Open Arms, la Guardia Costiera libica avrebbe lasciato morire la donna e il piccolo che come Josefa si trovavano a bordo di una nave con 158 persone. “Quando siamo arrivati, abbiamo trovato una delle due donne ancora in vita, ma non abbiamo potuto fare niente per salvare l’altra donna e il bambino che potrebbero essere morti poche ore prima di trovarli – ha denunciato su Twitter Oscar Camps -. Quanto tempo dovremo lottare contro assassini arruolati dal governo italiano per uccidere?”
La storia di Josefa l’ha raccontata Annalisa Camilli, giornalista di ‘Internazionale’ che si trova a bordo della nave della ong spagnola e ne ha raccolto la testimonianza. Non si trovano al momento registrazioni audio e video di Josefa che racconta la sua vita e sembra improbabile ce ne siano. Sarebbe stato utile per Open Arms diffondere il video di una narrazione così toccante. Secondo quanto raccontato dalla Camilli la donna salvata, Josefa ha appena 40 anni, viene dal Camerun, dove è scappata da un marito che la picchiava “perché non poteva avere figli“. Avrebbe spiegato la donna. Fuggiva dalle botte Josefa, ma una volta in Libia ha trovato altri aguzzini ad attenderla: e altre botte. Fino alla partenza e al naufragio. Ma di quest’ultimo evento non ricorda nulla.“Siamo stati in mare due giorni e due notti” ha avrebbe raccontato Josefa, dicendo di non ricordare da dove siano partiti e dove si trovino ora i suoi compagni di viaggio. “Sono arrivati i poliziotti libici – avrebbe spiegato – e hanno cominciato a picchiarci“. Di una cosa è certa Josefa: non vuole tornare in Libia, si raccomanda la Camilli.
La verità del racconto su Josefa non è oggetto di contestazione da parte dei media. Ad essere tacciati di falsità sono state le persone che hanno messo in dubbio la veridicità del racconto sul salvataggio basandosi su un dettaglio, quello delle unghie smaltate affermando che una donna in acqua 48 ore non poteva avere le mani curate. Open Arms ha spiegato che le mani della donna non erano “curate” al momento del salvataggio e la “manicure” è avvenuta a bordo, dopo il salvataggio. Spiegazione plausibile. Anche se molti si sono mostrati scettici sul fatto che a bordo dei volontari si fossero portati dello smalto. Ma sembra possibile invece, se i volontari non escludono di finire sotto le telecamere e, per questo preferiscono curarsi, anche nei dettagli.
Le perplessità non sono quindi sullo smalto, ma sulle parole della donna, se davvero le ha pronunciate. E basta qualche considerazione di buon senso per comprendere che il racconto, almeno per come è stato riferito, non regge.
Josefa parla il francese, è stato detto. Bene, allora partiamo dalla geografia e dalla lingua: il Camerun ha una superficie di 475.440 km² confina con Nigeria, Ciad, Repubblica Centrafricana, Repubblica del Congo, Guinea Equatoriale e Gabon, non con la Libia. Per giungere nel Paese che si affaccia sul Mediterraneo Josefa avrebbe dovuto attraversare almeno un altro stato. Arrivata in Libia, senza presumibilmente conoscere la lingua locale e senza, avere, come sembra probabile,aiuti sul luogo la donna si sarebbe trovata in grave difficoltà. Lei stessa avrebbe raccontato di “essere stata picchiata“. Ma non si sa bene da chi e in quali circostanze. Una lacuna nel racconto, e non è l’unica.
Se anche avesse deciso di lasciare il Camerun a causa delle percosse di suo marito, la donna avrebbe potuto dirigersi verso l’Algeria, potendo lì almeno comunicare in francese e da tentare di raggiungere la Francia. Invece Josefa attraversa un vasto stato africano – il Ciad – forse due – la Nigeria e il Niger – e si reca in Libia, decidendo di imbarcarsi su un’imbarcazione di fortuna e correndo il rischio di annegare. E per poco non è accaduto, dice Open Arms.
Tutto questo perchè, per sfuggire ad una guerra? No, per andare via da un “marito violento“. Davvero troppo per troppo poco. E sembra improbabile che una donna di 40 anni prima di intraprendere un viaggio pazzesco, pieno di incognite e con supporto logistico zero, non abbia trovato un aiuto o almeno un accomodamento in Camerun. Questa donna non ha uno straccio di persona disposta ad aiutarla, una parente, un’amica, nella terra dove ha vissuto per 40 anni? Per ricevere qualche cura, Josefa, deve attendere le volontarie di Open Arms?
Sorprende che di Josefa, che pur è finita in questo vortice mediatico poco si sappia: non si conosce il suo cognome, la città di provenienza. Non si conosce nulla dei suoi 40 anni trascorsi nel Paese d’origine. Open Arms per il momento non ha fornito nessun dettaglio di questo genere. Si è concentrata solo sui libici. Sembra che Josefa debba essere più un simbolo che una persona.
E il racconto vacilla in altri dettagli, quelli forse più cruciali: oltre alle botte in Libia, non si sa bene perchè e da chi, Josefa racconta l’avventura in mare. “Siamo stati in mare due giorni e due notti” ha avrebbe raccontato Josefa. Ma avrebbe detto di non ricordare da dove era partita. Una dimenticanza anomala, se ricordi da quanto tempo sei in mare. Josefa ricorda tuttavia un altro dettaglio “Sono arrivati i poliziotti libici e hanno cominciato a picchiarci“. Josefa non sembra dire nulla di più. Anzi dice di non ricordare un altro dettaglio: avrebbe detto di non sapere dove si trovino i suoi compagni di viaggio. Questo sarebbe un racconto?Josefa non racconta nulla della donna e del bambino, trovati morti accanto a lei. Non dice, almeno sembra, che loro tre sarebbero stati lasciati in mare dai libici perchè si sarebbero rifiutate le donne di tornare in Libia. Dice poche cose, se le ha dette, e in modo confuso.
Una Josefa che parla in questo modo poteva legittimare, da parte di Open Arms un comunicato dove si rendeva noto il salvataggio di una donna in “stato confusionale” aspettando di capire qualcosa di più. Cosa fa invece Open Arms? Praticamente in tempo reale, diffonde le immagini di Josefa, della donna e del bambino morti e diffonde la notizia di un’omissione di soccorso da parte della Guardia Costiera libica, accusando l’Italia di “arruolare assassini“. Queste sembrano considerazioni del tutto scollegate da riscontri. Josefa non verrà portata in Italia per raccontare quello che è accaduto. La Ong preferisce la Spagna, dove si apprende, la donna avrebbe denunciato la Guardia Costiera libica per omissione di soccorso, non l’Italia nonostante la “complicità in assassinio da parte del Governo italiano” di cui ha subito parlato Open Arms. Si spera che Josefa abbia avuto maggior precisione nel racconto, senza quelle vistose lacune. Meglio ancora se a parlare è stata lei da sola con gli inquirenti. E con Oscar Camps che tanto tiene alla “libera determinazione di Josefa” lontano. Si spera ora che la giustizia faccia il suo corso. Quella vera, non quella sommaria di Twitter tanto cara a Camps e ai suoi simili.
Fonte: Internazionale